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Imperialismo, egemonia e identità di classe

Lo scorso 7 marzo si è tenuto a Bologna il forum nazionale “Il piano inclinato degli imperialismi” organizzato dalla Rete dei Comunisti. Di seguito pubblichiamo l’intervento introduttivo di Mauro Casadio. Tutti gli altri interventi realizzati durante la giornata verranno pubblicati interamente sul prossimo numero della rivista Contropiano.

Imperialismo, egemonia e identità di classe
Mauro Casadio - Rete dei Comunisti

Imperialismo sembrerebbe una parola desueta, superata come tanti altri concetti che la nostra sinistra ed il complesso delle narrazioni tossiche capitalistiche ha ritenuto, negli anni passati, di dover gettare nella pattumiera della storia.
In questo clima il concetto di classe è stato sostituito da una indefinita società civile oppure da indistinte quanto improbabili “moltitudini”. Sembra tornata in auge una generica contrapposizione ricchi e poveri come categoria morale, magari sovrapposta al contrasto tra Nord e Sud del mondo, rimuovendo la evidente complessità delle società capitaliste. Anche il termine “lotta di classe” ed il conflitto è stato trattato dal punto di vista etico, morale e giuridico e non come un effetto onnipresente e motore nella storia umana recente. Infine il Socialismo è stato manipolato diventando non un progetto di riscatto ed emancipazione reale ma, nella migliore delle ipotesi, un evanescente “orizzonte” od un feticcio da utilizzare magari in versione socialdemocratica nelle occasioni elettorali.
Il dato che nella pattumiera della storia ci sia finita invece la nostra sinistra, quella più antica che viene dal PCI divenuta renziana e quella più recente che viene dalla “Rifondazione Comunista” degli anni ’90, ci incoraggia ad andare a rivisitare e ragionare sulle categorie del movimento operaio del ‘900 scegliendo, volutamente, quelle che hanno favorito la sua ascesa piuttosto che quelle che sono scaturite dal suo declino che ora sono la palude in cui sta affogando ogni pensiero critico.
La categoria dell’Imperialismo è di particolare importanza perche è il punto di congiunzione tra la teoria che analizza le tendenze di fondo del Modo di Produzione Capitalista e la concretezza della politica nelle relazioni sociali, tra economie, Stati e nei rapporti di forza militari internazionali. Ma a questo punto è necessario definire con chiarezza che cosa si intende per Imperialismo in quanto questo termine è stato utilizzato in modo e con contenuti molto diversi.
Recentemente si è andata accreditando la categoria interpretativa di “Impero”, ma è durata poco, anche a fronte dell’oggettivo concretizzarsi delle dinamiche della competizione globale interimperialistica la quale mostra chiaramente che il mondo non è “uno spazio liscio” dove vige un unico e totalizzante dispositivo imperiale. Oppure in genere il significato che si da a questo termine è legato a chi attua aggressive politiche militari in particolare riferito a paesi che non sono quelli a capitalismo sviluppato, uno per tutti la Russia.
Il nostro punto di vista fa riferimento invece alle categorie leniniane, anche queste “desuete”, che definiscono non le politiche di un paese ma il suo livello di sviluppo complessivo. Su questo non mi soffermo in quanto le altre relazioni entreranno nel merito di questi contenuti ma va sottolineato che il termine non indica la “semplicità” della pratica militarista ma una complessa dimensione che ingloba fattori di sviluppo economico, sociale, politico, tecnologico, che costringe i paesi imperialisti a superare i propri confini politici e geografici ed a proiettarsi su una soglia più ampia di asservimento degli altri popoli e paesi alle proprie necessità di sviluppo in cui lo strumento militare costituisce un unico aspetto e, probabilmente, non ne è il principale.
Guarda caso queste caratteristiche non sono proprie di quei paesi che oggi vengono additati di praticare politiche imperialiste ma dei punti più avanzati dei paesi capitalisti a cominciare dagli USA e dalla UE.   
L’utilità di tornare ad usare la chiave di lettura esposta da Lenin nell’Imperialismo sta nel fatto che ci obbliga a guardare la società nel suo complesso, nelle sue connessioni organiche e contraddittorie sia interne che internazionali e che ci porta fuori da una semplice concezione politicista e sovrastrutturale, che è stata la condanna della sinistra e dei comunisti certamente nel nostro paese ma anche in altri particolarmente quelli che si sono incardinati ad un filone di “marxismo occidentale ed eurocentrico”. Dunque tendenze economiche, livello di sviluppo tecnologico e scientifico, apparato istituzionale ma anche la Storia e la lotta di classe sono gli elementi che vanno compresi nell’analisi degli imperialismi odierni. Uno spessore teorico oggi fuori dalla portata intellettuale di una sinistra in dismissione e che con l’incontro di oggi vogliamo in parte riattualizzare avendo ben presenti, naturalmente, anche i nostri limiti.
Nella presente relazione si intende evidenziare una questione centrale, che spesso sfugge o è sottovalutata nei suoi effetti politici concreti, che è la questione dell’ideologia. Non la fine delle ideologie che ci viene raccontata giornalisticamente ma l’ideologia intesa come strumento di gestione e manipolazione sociale in determinate condizioni storiche e materiali, ma anche come componente importante di una possibile identità antagonista fuori e contro una sinistra sempre più compatibilizzata ed integrata nelle forme di dominio del capitale.

DALLA CONCERTAZIONE ALLA COMPETIZIONE GLOBALE
In questi decenni c’è stato un salto qualitativo anche sul piano della rappresentazione ideologica delle classi dominanti. Quando c’era l’antagonismo sovietico e dei paesi che, in un modo o nell’altro, facevano a questo riferimento il capitale era riuscito a produrre una rappresentazione ideologica organica alle potenzialità della sua base materiale e produttiva; banalizzando possiamo dire che il “Consumismo ha vinto sul Comunismo” in quanto la sua materialità produceva egemonia superando così il modello sociale di quei paesi costretti a fare i conti con contraddizioni non risolte.
La fine dell’URSS, con tutto quello che ne è conseguito, ha riproposto direttamente tutte le contraddizioni del Modo di Produzione Capitalistico, a cominciare dalla competizione interimperialista, che sta rimettendo in discussione la capacità del capitale di presentarsi come unico orizzonte possibile dell’umanità. La crisi economica, le tendenze ed i primi consistenti lampi di  guerra, il consumo del pianeta causato dalla necessità di valorizzazione illimitata del capitale stanno generando effetti per certi versi catastrofici riproducendo scenari drammatici che si pensavano storicamente superati. Questo incedere dello sviluppo capitalista produce come effetto “collaterale” la sua crisi di egemonia ancora incipiente ma reale e che cosi viene esattamente percepita dalle classi dominanti.
La rimessa in discussione di questa sta generando una serie di contromisure strutturali atte a rinviare gli effetti della crisi ma anche un “adeguamento” della visione ideologica che faccia fronte alle contraddizioni emergenti e che impedisca punti di vista alternativi utilizzando in modo invasivo tutti gli apparati culturali e politici di cui indubbiamente i mass media ne sono lo strumento principale. I due piani della riorganizzazione capitalistica non possono essere scissi e dunque per comprenderli bisogna analizzare le loro connessioni concrete così come si sviluppano nella realtà. Il punto di partenza, quindi, resta la succitata crisi che nasce dalla fine di un mondo unipolare aprendosi ad una fase di competizione complessa che riguarda sia i paesi imperialisti che le nuove potenze economiche che sono maturate sullo scenario globale negli ultimi decenni.
Il passaggio dalla concertazione occidentale, attorno al paese imperialista dominante degli USA, alla competizione globale non è certo un fatto casuale ma è determinato da meccanismi profondi del capitalismo che trattiamo in altre relazioni, sia nei meccanismi di fondo che nelle forme concrete di manifestazione, ma che spingono verso una rimessa in discussione dei passati assetti mondiali rivedendo posizioni di rendita storica ed equilibri consolidati. Questa dinamica non è un processo indolore e si manifesta soprattutto attraverso una accentuazione della guerra di classe fatta “dall’alto” ed una guerra vera e propria che finora si è manifestata attraverso molteplici episodi locali subendo una accelerazione inaspettata negli ultimi anni cioè in quelli coincidenti con il manifestarsi della ultima crisi finanziaria dal 2008 in poi.
Le tensioni militari, che sono quelle che danno il polso effettivo della situazione, hanno una dimensione mondiale e vanno da quelle in estremo oriente tra Cina, USA, Giappone fino a quelle latenti che esistono in America Latina; ma lo scenario dove queste diventano conflitto armato è quello che ormai circonda l’Unione Europea e non a caso. Quello che abbiamo già definito “l’anello di fuoco” non si va placando, anzi diviene sempre più pericoloso. 
I conflitti armati vanno dall’est Europa, e più precisamente in Ucraina, scendono in Medio Oriente e poi si sviluppano verso l’ex Africa francese e sub sahariana. Tale scenario ci offre una chiave di lettura di quei processi che più direttamente ci riguardano e che sono relativi alla costruzione di una “nuova” entità imperialista, non ancora compiuta ma che scombina le relazioni mondiali oggi vigenti.
In quest’area infatti confliggono gli interessi di diversi centri; il primo è la costituente UE in cerca della propria unità e della crescita della propria influenza strategica, poi c’è il paese egemone rimesso in discussione strategicamente e dunque gli USA, la Russia come oggetto di una competizione tra i primi due e candidata ad una ulteriore disgregazione dopo l’URSS anche tramite la guerra economica ed infine un nuovo “player” che è il polo arabo-islamico. Questo sta tentando di svolgere una funzione strategica sia sul piano politico che su quello militare rivendicando una propria autonomia, anche se finora in modo ancora poco definito e spesso contraddittorio come la stessa querelle dell’ ISIS dimostra.  
Pensare di separare questo epicentro dei conflitti armati mondiali dai processi interni di costruzione dell’UE sarebbe un errore grossolano sia per gli effetti pratici che conseguono al nostro diretto coinvolgimento nei conflitti sia per la comprensione concreta di quello che sta accadendo dentro casa “nostra” su cui dobbiamo necessariamente concentrare l’analisi e la conseguente attitudine politica e militante.

CRISI DELLA RAPPRESENTANZA E DELLA POLITICA
Per capire dunque qual è la condizione politica oggi delle classi subalterne e quella della sinistra di classe e dei comunisti non si può non partire dai processi di riorganizzazione europea non solo di quelli economici, produttivi e finanziari ma anche da quelli istituzionali, politici, giuridici ed ideologici. Volendo sintetizzare affermiamo che la costruzione del polo imperialista europeo implica la definizione di un Blocco Storico a carattere borghese continentale che sia in grado di guidare e caratterizzare questo processo.
Per Blocco Storico, gramscianamente inteso, non si vuole indicare solo la unificazione di interessi finanziari, economici e produttivi ma implica tutti i livelli di costruzione di una nuova entità statuale che vanno dal riassetto istituzionale, con il superamento graduale degli attuali Stati nazionali, fino alla conquista di una direzione politica e culturale che riesca a guidare non solo i settori borghesi che più guadagnano da questo processo ma anche le classi subalterne, che sono in realtà solo oggetto di tale processualità. Quest’ultimo aspetto che attiene alle moderne forme della passivizzazione politica e dell’annichilimento della identità collettiva della nostra classe di riferimento diviene centrale per gli esiti finali del progetto continentale.
Tale gigantesca dinamica sociale, come abbiamo detto, non nasce dalla volontà “politica” di statisti illuminati, come ci raccontano noiosamente gli opinion maker della comunicazione deviante, ma dalla necessità di attrezzarsi, da parte dei settori più avveduti della borghesia continentale, per l’accresciuta competizione globale che ha preso corpo dopo la fine dell’URSS.
Dunque la dimensione continentale non è un optional ma una questione di sopravvivenza per le borghesie dei paesi europei a cominciare da quella Tedesca e Francese. Questa ineluttabilità sta portando a forzature sul corpo sociale dei diversi paesi superando la storica distinzione tra ceti sociali, rimescolandoli e comprimendoli in una nuova dimensione che rompe equilibri e riferimenti consolidati materiali ed ideali. Un vero e proprio frullatore sociale che muterà completamente gli scenari precedentemente consolidati e che causerà lacerazioni e fratture di non poco conto.
La complessità e la storicità di un tale progetto balza agli occhi immediatamente se consideriamo il superamento degli Stati Nazionali. Questi sono stati per l’Europa la condizione materiale per la costruzione delle economie, della definizione delle relazioni sociali e per la costruzione della rappresentanza democratica che, nelle diverse forme della lotta di classe nei vari paesi, ha formato l’identità politica e l’ambito istituzionale in cui si sono svolte le dinamiche sociali nei singoli paesi. Rompere questo retroterra storico significa modificare radicalmente contenuti e riferimenti dell’intera società, determinare chi guadagna da questo rimescolamento e chi ci rimetterà. Tutto questo in nome delle necessità di valorizzazione del capitale in una condizione dove tale dinamica non può più implicare una crescita generale ma uno scontro tra i soggetti che devono accrescere il proprio capitale a spese degli altri.
E’ a questo punto che si riconnettono la crisi strutturale, dovuta alla ristrutturazione di un intero continente, con la crisi di egemonia dove parti sociali consistenti di questo continente vengono penalizzate e private dei propri strumenti di difesa e di identità.
Tutta la retorica sul valore progressivo dell’Unione Europea, sui diritti umani e la democrazia, sugli interventi umanitari, contro i totalitarismi sono esattamente la rappresentazione rovesciata della realtà, come avviene in una lastra fotografica, ed una funzione fondamentale per la trasformazione autoritaria che si vuole attuare.
La realtà è che dalla situazione traggono vantaggio i poteri finanziari e le imprese multinazionali non i settori sociali più ampi, che la decisionalità politica dei popoli è ridotta zero e che l’interventismo militare è la realtà dei cosiddetti interventi umanitari. La difficoltà di portare avanti questa trasformazione allora si concretizza ed assume diverse forme; dalla risposta dei popoli dei paesi PIIGS, e la vittoria elettorale di Syriza ne è un sintomo che arriva fino al Sinn Fein in Irlanda, alla inaspettata affermazione dei cosiddetti “grillini” in Italia fino alle risposte reazionarie che si hanno in Francia, in Italia con la Lega ma anche nel nord del continente che vedono ridimensionate le proprie condizioni di vita.
Insomma il grande progetto dell’Unione Europea più si concretizza e più perde credibilità sui popoli del continente anche se le varie reazioni sociali hanno segni e profili differenziati.
In tale contesto si manifesta anche una crisi politico istituzionale dove emergono forze che in tutto od in parte si pongono in modo antagonista rispetto al progetto europeo in quanto rappresentante di una esplicita penalizzazione delle condizioni sociali complessive ed un arretramento rispetto alla storia del continente che dal secondo dopo guerra è riuscito a garantire, anche grazie ai variegati effetti della lotta di classe, una emancipazione generalizzata.
Tende in questo passaggio epocale il venire meno, attraverso un oggettivo indebolimento, la funzione della politica nello Stato borghese intesa come elemento di congiunzione tra condizioni obiettive e capacità di gestione generale della politica e del sociale. Ed è nel concretizzarsi di questa distonia che emerge il limite al potere delle classi dominanti.  

I NOSTRI PROBLEMI
Il nodo politico che abbiamo però di fronte come comunisti è quello che le reazioni popolari e le esperienze che stanno sorgendo sono sostanzialmente diverse dalle nostre “aspettative” ed assumono forme contraddittorie. Ci riferiamo, ad esempio, a Grillo in Italia che ha occupato lo spazio di opposizione una volta occupato dalla sinistra e dai comunisti, oppure della Marine Le Pen che è direttamente di destra e razzista e che vanta un insediamento in importanti zone proletarie della Francia. Anche le esperienze più vicine alla tradizione del movimento di classe non si ripropongono in linea retta con quello ma assumono accezioni particolari. La posizione di Syriza sulla ineluttabilità della UE e dell’Euro è palesemente una contraddizione con la condizione di subalternità di quel paese, contraddizione che in questo periodo si sta manifestando concretamente con la contrattazione “a perdere” avviata con l’UE e con la spaccatura che si registra tra i sostenitori di Syriza dentro e fuori la Grecia. Podemos in Spagna non sta al governo ma non è escluso che le stesse contraddizioni greche potranno riverberarsi nella situazione di quel paese. Potremmo continuare con la lista delle situazioni ma è necessario andare a fondo nella comprensione dei contraddittori fenomeni che abbiamo evidenziato.
La contraddizione di fondo che si esprime è che ad una necessità concreta di opposizione radicale che si fa strada nei settori sociali penalizzati dalla costruzione della UE non corrisponde una ideologia, intesa come visione generale del mondo, di radicale alternatività al modello che la UE propone. Certo c’è una opposizione alle politiche di austerità, c’è l’affermazione della necessità di una Unione diversa e più democratica, c’è anche un ripiegamento nazionalista pericoloso ma impotente ma non c’è un’ idea di modello sociale alternativo e tutto rimane chiuso dentro quella che abbiamo definito come la “gabbia” dell’Unione Europea.
I motivi per cui si è giunti a tale vicolo cieco per l’alternativa sono molti e di spessore. Mentre si vive il malessere sociale non vengono ripudiati a livello di massa i riferimenti ideali e culturali di questa società. Facciamo un esempio: la furia iconoclasta contro il ruolo dello Stato nonostante che i processi di privatizzazione vadano avanti nel mondo da oltre trenta anni e che sono loro la causa della crisi attuale. Da noi questo assioma liberista è stato supportato da una campagna martellante contro la “politica” fatto dalla intellighenzia borghese nostrana, in particolare tramite “La Repubblica” ed il “Corriere della Sera”.
Chi ha sostenuto direttamente in questi anni tutti i governi che hanno prodotto la situazione degenerata della politica ha deciso, ad un certo punto, di assumere la funzione di “moralizzatore” dei costumi della loro indecente classe politica, con l’obiettivo non di ridurre la corruzione, obiettivo ad oggi palesemente fallito, ma di subordinare ancora di più il ruolo dello Stato a favore del profitto privato. Campagna ideologica che è stata fatta in modo intelligente, che ha condizionato il “senso comune”, che ha fallito completamente sugli obiettivi di moralizzazione pubblicamente sostenuti ma che ha ben rappresentato determinati interessi. 
Anche accettare a livello di massa il principio che per assumere bisogna licenziare, come afferma e pratica Renzi attraverso il Jobs Act, è una contraddizione in termini che dovrebbe vedere una sollevazione soprattutto dei precari e dei settori giovanili; questo però non avviene, se non per i settori già organizzati, mostrando che la passivizzazione e la paura è stata introiettata anche da chi dovrebbe, legittimamente, aspettarsi di più dalla società e da uno Stato moderno.
Un’altra cartina tornasole della condizione di sudditanza dei settori popolari della società è quella che viene accettato il principio del debito pubblico come assioma religioso senza chiedersi chi ha prodotto questo debito e chi lo sta pagando. Anche qui il senso comune – l’ideologia dominate - afferma che non pagare i debiti porterebbe il paese in banca rotta e fuori dall’Euro. Per cui si preferisce continuare a scornarsi tra diversi settori sociali innestando la  guerra tra poveri e l’insieme dei fenomeni di contrapposizione sociale al ribasso, per chi lo debba pagare.
Infine, ed è il caso che più allarmante, oggi la guerra sfiora le nostre coste eppure l’indignazione contro gli interventi militari si affievolisce rispetto alle grandi mobilitazioni degli anni passati e si accetta l’ossimoro indecente delle guerre umanitarie. Questo “abbassamento della guardia” rispetto all’esperienza storica del nostro popolo significa adeguarsi ad una visione imperialista delle relazioni internazionali. Quando Renzi, segretario del PD, afferma che bisogna intervenire in Libia mostra una rimozione della memoria storica di questo paese pericolosa perché ci potrebbe far trovare impantanati in avventure colonialiste che la nostra “Italietta” non sarebbe in grado di sostenere. Questa rimozione è comprensibile per chi deve rappresentare gli interessi dell’ENI e del capitalismo tricolore ma molto meno per quei milioni di cittadini che negli anni passati si sono opposti alle diverse avventure belliche e che oggi appaiono ammutoliti e confusi.
Questi sono solo alcuni esempi che mostrano gli ottimi risultati avuti dal martellante lavorio culturale fatto dagli apparati ideologici della borghesia Europea. Qui ritorna la necessità di capire che l’arma ideologica è un’arma concreta con la quale fare i conti e misurarsi . Ed è attraverso questo imponente apparato formativo per il “popolo” che tutto viene distorto e ribaltato nella percezione del mondo reale costruendo quei comportamenti e quegli scenari immaginifici in cui è dissolta e smarrita la coscienza di classe e la tensione sociale al cambiamento.
Naturalmente non è sufficiente solo questo elemento sovrastrutturale a determinare la situazione presente alla quale contribuiscono anche le condizioni materiali delle classi subalterne e le gerarchie presenti tra gli Stati del continente. Le diseguaglianze sociali tra le diverse regioni europee che tendono ad ampliarsi, la disgregazione produttiva che si manifesta soprattutto nei paesi periferici e semiperiferici e rende più debole il conflitto di classe, la riduzione dei redditi generalizzata, le modifiche legislative che indeboliscono la contrattazione tra il lavoro ed il capitale, la mutazione genetica delle organizzazioni del vecchio movimento operaio, passate ormai armi e bagagli sul carro del vincitore, sono tutti dati materiali che agiscono concretamente nella vita quotidiana e che inducono ulteriore debolezza nei rapporti di forza tra le classi e di conseguenza anche l’accettazione dei riferimenti ideali generali delle classi dominanti.

RICOSTRUIRE UNA PROSPETTIVA
Non tenere conto di questa complessità strutturale della situazione, che si snocciola come una  catena di sant’Antonio, dalla questione dell’imperialismo come tendenza di fondo del capitalismo fino alla condizione ideologica delle masse, significa non capire come sta mutando il mondo sui variegati versanti strutturali e sovrastrutturali. Quando a fronte alle feroci politiche antisociali dei governi e dei padroni assistiamo all’assenza di reazioni da parte dei lavoratori o dei settori sociali dobbiamo sapere che le difficoltà vere ed oggettive vanno ben oltre la semplice passività soggettiva ed assenza di lotta che immediatisticamente vediamo.
Tale consapevolezza però non può rimanere come frustrazione insoluta individuale o di organizzazione, bisogna produrre uno sforzo di razionalizzazione e di contestualizzazione che individui le difficoltà di fondo ed i nostri limiti ma anche le vie d’uscita, cioè i punti deboli dell’avversario che mai come oggi si sono mostrati così palesemente. Su questo piano il ”bandolo della matassa” per una ricerca sono i rapporti di forza tra le classi ed a livello internazionale. Da tale punto di partenza è  possibile capire lo spessore delle difficoltà che incontriamo nel nostro rapporto con i settori sociali ma, nel contempo, è da qui che possiamo trovare i punti su cui fare leva per “sollevare il mondo”.
Da questo punto di vista la lezione da apprendere è che il percorso di ricostruzione va ben oltre la semplice pratica della “politica” che spesso oggi rappresenta invece proprio il nostro punto debole in quanto incapace di incidere sui suddetti rapporti. Lo abbiamo visto con la improvvisa superfluità della sinistra nostrana, evaporata di fronte alle difficoltà strategiche nel 2008, ma rischiamo di vederla anche nella sviluppi della Grecia. Nella vicenda ellenica si tende a sostituire l’organizzazione ed il  conflitto di classe con una trattativa con l’Unione gestita “politicamente”, vedi la risibile scomparsa della dizione formale della Troika, senza porsi strategicamente la necessaria modifica dei rapporti di forza in quella società. Rapporti che sono prodotti non solo dal conflitto diretto ma anche da una visione del mondo diversa, forte ed alternativa, e dalla capacità di sviluppare proposta politica ed identità percepibile direttamente dalla nuova composizione di classe che sta maturando nei vari paesi europei.
La presente relazione si vuole limitare a fare una analisi della percezione soggettiva dei settori di classe nel nostro paese e non vuole affrontare il piano della proposta che fa parte della  quotidiana battaglia politica che come Rete dei Comunisti sviluppiamo.
Intanto però è utile individuare alcune linee di lavoro sulle quali fare ulteriori verifiche ed elaborazioni di cui le principali sono, per noi, tre:
- in questo senso il punto di partenza non può che essere la ricostruzione graduale ma sistematica di una visione organica della realtà continuamente in evoluzione che ci sappia dare, come prima cosa, una coscienza concreta dei processi in atto da affrontare. Per questa dimensione si rende necessario il lavoro teorico, la ricostruzione non solo delle dinamiche presenti ma anche delle tendenze che al di sotto di queste si nascondono e le agitano.
Intendiamo riaprire questo capitolo per i comunisti e per la sinistra di classe in quanto in questi ultimi decenni ci è stato brutalmente mostrato dalla realtà che senza teoria – senza teoria comunista - si diventa dei gattini ciechi. Certo non bisogna pensare di essere possessori della verità e bisogna partire dal metodo giusto che permetta il confronto, l’approfondimento ed anche la sintesi. Siamo convinti che questa sarà una materia difficile da maneggiare e che rischia di produrre divaricazioni ed incomprensioni. Crediamo, però, che questo percorso va fatto senza preconcetti sapendo che oggi, per davvero, non abbiamo nulla da perdere sul piano delle prospettive politiche, ormai obnubilate dalle innumerevoli sconfitte.
Per quanto ci riguarda come Rete dei Comunisti il metodo che abbiamo adottato è quello di partire nella riflessione dai momenti alti del movimento operaio del ‘900, prodotti per altro da una capacità teorica e culturale distante da noi anni luce, per capire come quelle tendenze storicamente definite esistano ancora, possano, e in che misura, essere adeguate al contesto attuale.  E’ questo il metodo che ci ha permesso da anni di individuare la tendenza alla competizione  interimperialista, intesa in termini leniniani, come elemento motore delle moderne dinamiche di classe e internazionali.  E’ questo un metodo che informa tutto il nostro lavoro e lo stesso progetto di costruzione politico ed organizzativo della RdC;
- naturalmente la teoria da sola non serve ed è necessario capire come questa vada trasformata in politica, ovvero nella capacità concreta di incidere sui rapporti di forza. Certamente la necessità dell’organizzazione materiale del blocco sociale antagonista rimane come base necessaria ma dato il conflitto ideologico portato avanti dall’avversario di classe con una potenza di fuoco enorme è chiaro che non possiamo chiamarci fuori da questo tipo scontro. Su questo terreno bisogna andare a fondo nella elaborazione e nella costruzione degli strumenti adeguati a sostenere un confronto egemonico, certamente oggi tutto a nostro sfavore, ma che può essere praticato grazie alle innumerevoli contraddizioni che stanno emergendo nel campo avverso.
Anche qui si pone il problema dell’adeguamento della battaglia da fare. La pigra abitudine di lucidare in continuazione i vecchi concetti che sono stati utili nel secolo passato non aiuta, c’è la necessità di trovare nuove forme di rappresentazione a partire dai  persistenti rapporti di produzione. Non ci interessa l’effimero eclettismo ma necessitiamo di forme concettuali e di una adeguata strumentazione che sappia parlare alla nuova composizione di classe ed alle nuove condizioni del blocco sociale. Su questo abbiamo molto da imparare in quanto ci siamo attardati su modalità che hanno rallentato anche l’azione delle forze di classe più coerenti. Questa carenza ha dato spazio all’esperienza grillina alla quale, al di là della distanza che ci separa da questa, non possiamo negare il riconoscimento che è riuscita a parlare a quella nuova composizione sociale fatta di lavoro intellettuale dipendente, subalterno ed in condizione di precarietà che riguarda la gran parte di giovani “proletari” modernamente intesi; 
- infine non ci si può non misurare con l’effetto concreto della nascita dell’imperialismo Europeo che si manifesta con la costruzione dell’Unione continentale. Su questo bisogna essere molto chiari in quanto ne vanno di mezzo le prospettive politiche del movimento antagonista che obiettivamente si muove in contrapposizione a quello che si sta costruendo. La chiarezza politica è il presupposto per la costruzione dell’organizzazione di classe e della sedimentazione delle forze. Non si può riprodurre su questo piano la subordinazione all’ideologia eurocentrica che oggi condiziona, sempre meno per fortuna, i popoli europei. Una forza politica di classe, che vuole svolgere una funzione politica pubblica, deve essere chiaramente per la rottura della Unione Europea intesa quale entità imperialista.
Quello che viene invece sostenuto dal comune senso della sinistra è quello della necessità di una Unione Europea diversa, qui il rischio è enorme e già verificato in quanto una forza che rappresenta non solo le classi subalterne ma anche una prospettiva alternativa per l’umanità non può che lottare in prima persona contro il proprio imperialismo. In altre parole fare l’opposto di quello che hanno fatto nella prima guerra mondiale i partiti socialisti europei che si sono schierato a fianco del proprio imperialismo e per il massacro dei popoli europei, massacro che si è protratto poi per i cinque del conflitto mondiale.

Per quanto ci riguarda come organizzazione a questa posizione di rottura netta e senza ambiguità va aggiunta una proposta in positivo che abbiamo concepito come un’alleanza/relazione politica ed economica  tra i paesi penalizzati dall’attuale Unione, quelli della sponda Mediterranea in primis, che si renda indipendente e padrona dei propri destini. Questa nostra impostazione complessiva si scontra inevitabilmente con la posizione della ex sinistra antagonista sia sul merito che sul metodo. Quella che doveva essere la rifondazione di un pensiero critico e modernamente comunista è rimasta al “palo” sia negli anni bertinottiani, dove la subordinazione al PDS/DS/PD era la vera linea del PRC, sia negli anni successivi della crisi del partito dove ad una ritrovata radicalità, forse più obbligata che convinta, non si è riusciti o non si è voluto ritrovare una dimensione teorica che permettesse di uscire dalle necessità quotidiane della politica. Quello che ci sembra si continui a praticare è un tatticismo finalizzato esclusivamente alle scadenze elettorali che, oltre ad essere quasi fuori della portata dei partiti superstiti, si configura come il tappo di una situazione in cui questa sinistra si mostra per il movimento di classe da costruire più come il problema che la soluzione.
Purtroppo la vicenda Greca ci aiuta a dare anche una lettura di quello che sta avvenendo in casa nostra; lo scontro in quel paese è duro e vero, ognuno può avere le sue valutazioni ed opinioni ma sa che l’esito finale verrà dalla prova dei fatti nel prossimo futuro, un esito non scontatamente positivo. Da noi si sta vivendo invece quella vicenda politica come una possibile rivalsa in patria usando la vittoria di Syriza come un feticcio salvifico per i prossimi passaggi elettorali. Ancora una volta si prescinde completamente dai rapporti di forza tra le classi e dal fatto che questi per essere modificati richiedono un lavoro teorico e d’organizzazione di cui da tempo da noi non si ha ne coscienza ne conoscenza.
Inoltre pensare che l’Unione Europea possa tornare sui suoi passi in seguito a delle vittorie elettorali significa non cogliere la natura del processo che sta maturando come riflesso delle relazioni internazionali. E’ qui che si torna alla questione dell’Imperialismo e dunque alla mancanza di una ritrovata teoria che ci possa dare una lettura esatta delle dinamiche in atto oggi nelle società capitaliste, strutture di potere che non possono concedere più nulla a quelle relazioni sociali e politiche che furono il prodotto della lotta di classe del ‘900.

Mauro Casadio - Rete dei Comunisti

 

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