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L’imperialismo oggi: cos’è e dove va

Pubblichiamo l'intervento di Guglielmo Carchedi, dell'Università di Amsterdam, realizzato alla Tavola Rotonda su: "Natura imperialista dell'Unione Europea e forme della lotta di classe" organizzata, sabato 9 gennaio scorso, a Napoli dalla Rete dei Comunisti, dai compagni della Mensa Occupata- Noi Saremo Tutto e dai compagni del Laboratorio ISKRA di Bagnoli.

Oltre alla relazione di Guglielmo Carchedi sono intervenuti, con altri interessanti contributi, Paolo Cassetta, Mauro Casadio ed Emilio Quadrelli.
E' intenzione dei compagni che hanno curato l'iniziativa approntare prossimamente un opuscolo con le relazioni dei compagni intervenuti per dare conto, ampiamente, del dibattito e per sollecitare la discussione tra i compagni e gli attivisti tutti.

*** 

L’IMPERIALISMO OGGIGIORNO: CHE COS’Ė E DOVE VA

G. Carchedi

Napoli, 8 Gennaio 2016 

I. Con la disfatta storica del movimento operaio, la parola ‘imperialismo’ è scomparsa dal vocabolario della sinistra ed è stata rimpiazzata da ‘globalizzazione’. Tuttavia, se la parola è scomparsa, la realtà persiste.

Vediamo prima di tutto cosa non è l’imperialismo. Prendiamo ad esempio la nozione di Impero di Toni Negri. Ho scritto una lunga critica di Impero in un mio libro recente (Behind the Crisis). Qui posso solo menzionare telegraficamente alcuni dei punti chiave di Impero senza aver la pretesa di dare una valutazione anche minimamente completa .

Nell’Impero di Negri, mentre l’imperialismo era un’estensione della sovranità degli stati europei oltre i loro confini nazionali, ora l’Impero è un network globale di potere e contro potere senza un centro (p. 39). Quindi gli Stati Uniti non formano, e nessuno stato può formare, il centro di un progetto imperialista (p.173). Gli Stati Uniti intervengono militarmente nel nome della pace e dell’ordine (p.181).

Ma è ovvio

(1) che il ruolo degli stati non stia scomparendo, anche se come vedremo, alcuni sono inglobati in blocchi imperialisti

(2) che la nozione di potere e contropotere ignora che il potere delle nazioni dominanti non è lo stesso potere delle nazioni dominate

(3) che l’imperialismo, lungi dallo scomparire si sta trasformando pur rimanendo essenzialmente lo stesso

(4) che poi gli USA intervengano militarmente per mantenere la pace, è un’affermazione che glorifica e giustifica quell’imperialismo di cui Negri nega l’esistenza.

Consideriamo allora una persona più seria, Lenin. Posso solo soffermarmi solo su alcuni aspetti economici. Il suo testo sull’Imperialismo, anche se vecchio di un secolo, per alcuni versi è ancora attuale, anche se ovviamente deve essere aggiornato.

Prima di tutto, si noti che per Lenin, l’ultimo stadio del capitalismo significa il più recente stadio, lo stadio in cui le potenze coloniali hanno completato la suddivisione del mondo in colonie e non nel senso che dopo di esso non ve ne sono altri. Quindi non nel senso che ulteriori suddivisioni siano impossibili. Per Lenin le suddivisioni sono non solo possibili ma anche inevitabili. Vecchi paesi coloniali vengono affiancati o rimpiazzati da nuovi paesi coloniali e le colonie possono passare dal dominio di un paese coloniale ad un altro.

Per Lenin la caratteristica principale del più recente stadio dello sviluppo capitalista è il dominio delle associazioni monopolistiche del grande capitale, quelle che oggigiorno si chiamano multinazionali. Gli stati sono necessari per difendere e promuovere gli interessi delle multinazionali attraverso tutta una serie di politiche, anche militari. Ovviamente i due ordini di interessi non sono sempre convergenti. Per Lenin gli interessi dei paesi imperialisti sono principalmente l’esproprio di materie prime. L’esempio attuale più macroscopico è oggigiorno il petrolio. Ma la caccia alle materie prime non è il solo motivo del dominio coloniale. Lenin menziona anche un altro aspetto, che è di grande importanza anche e soprattutto oggigiorno. Egli evidenzia che non vi sono solo due gruppi di nazioni, i paesi coloniali e le colonie stesse. Vi sono anche nazioni che, pur essendo politicamente indipendenti, sono invischiate in una rete di dipendenza finanziaria. Lenin le chiama semi-colonie finanziarie e commerciali. La dipendenza finanziaria dei paesi debitori nei confronti dei paesi creditori è particolarmente evidente nella situazione attuale in cui il debito privato, del sistema finanziario e dello stato si accumulano e raggiungono livelli mai visti.  

Allora che cos’è l’imperialismo?  Se ci limitiamo all’aspetto economico, che è poi quello determinante, l’imperialismo è la concorrenza capitalista portata a livello internazionale. Il suo scopo è l’appropriazione da parte dei capitalisti della nazione imperialista della ricchezza e del valore dai capitalisti delle nazioni dominate. Questi a loro volta lo estorcono dai propri lavoratori. La caratteristica fondamentale dell’imperialismo non è il dominio del capitale finanziario su quello  produttivo. Questa è la tesi della finanziarizzazione. Il settore determinante dell’andamento dell’economia è quello produttivo di valore e plusvalore. Il settore finanziario sorge dalle contraddizioni inerenti al settore produttivo e i suoi profitti sono detrazioni dai profitti generati dal settore produttivo.

Vi sono tre forme di appropriazione di ricchezza. C’è la violenza bruta, come invasioni, guerre, ruberie, ecc. Poi c’è e l’appropriazione attraverso il sistema finanziario. E poi c’è anche una terza forma di appropriazione di ricchezza, quella che opera attraverso la competizione tecnologica. Essa è ancora più importante oggigiorno quando lo sviluppo tecnologico assume ritmi sempre più frenetici.

Per capirla, partiamo dalla premessa, che può essere dimostrata anche empiricamente, che solo il lavoro vivo genera valore. Le innovazioni tecnologiche rimpiazzano lavoro con mezzi di produzione. Il capitalista innovatore aumenta il suo prodotto ma se il prodotto è generato con meno lavoro, il valore del maggiore prodotto è minore. Invece gli altri capitalisti con tecnologie meno avanzate producono un output minore ma con più lavoro e quindi con più valore incorporato.  Siccome i prodotti dei vari capitalisti entro un dato settore vengono venduti più o meno allo stesso prezzo ad altri settori, i leader tecnologici si appropriano di una parte del plusvalore generato dai capitalisti tecnologicamente arretrati. Il tasso di profitto dei primi cresce a scapito di quello dei secondi. E il tasso medio di profitto scende. Come dice Marx, il tasso di profitto cala non perché il lavoro è meno produttivo ma perché è più produttivo e cioè perché la maggiore produttività è l’atra faccia della stessa medaglia, la diminuzione della forza lavoro e quindi  del valore incorporato.

Possiamo ora distinguere tre tipi di rapporti imperialisti.  

Nel colonialismo tradizionale

(1) le colonie forniscono le materie prime alle nazioni colonizzatrici da cui importano prodotti finiti, e

(2) a cause di questo rapporto, nelle colonie non vi è un processo rilevante di sviluppo capitalista e di diversificazione dell’economia.

Nell’imperialismo moderno, vi può essere nei paesi dominati uno sviluppo economico capitalista,  con conseguente diversificazione e accumulazione del capitale. Tuttavia questo è uno sviluppo dipendente nel senso che

(1) il capitale nei paesi dominati adatta la sua produzione e attività economiche ai bisogni del centro imperialista e diversifica la sua struttura interna secondo questi bisogni

(2) il centro esporta ai paesi dominati quello di cui i paesi dominati hanno bisogno ma soprattutto quello di cui hanno bisogno (per esempio, infrastrutture) affinché questo rapporto di dominazione possa continuare

(3) il centro esporta ai paesi dominati anche tecnologie relativamente avanzate, ma non le più moderne, in modo da trasferire plusvalore verso il centro e di mantenere una dipendenza tecnologica

(4) data questa dipendenza tecnologica, i paesi dominati debbono far ricorso a salari più bassi relativamente a quelli del centro e/o alla svalutazione della loro moneta.

Quindi, l’essenza della relazione di dominio imperialista è che alcuni paesi, i paesi dominanti, espropriano ricchezza e plusvalore dai paesi dominati che sono dominati in quanto espropriati di valore e ricchezza. Quindi si può parlare di paesi espropriatori e paesi espropriati di valore e plusvalore e quindi di capitali  espropriatori e capitali espropriati.

Ma la situazione non è statica nel senso che una nazione dominata non è condannata a rimanere tale. Una nazione dominata può tentare di liberarsi da questo rapporto di domino imperialista per diventare essa stessa un paese imperialista. Questi sono i cosiddetti paesi emergenti. Essi, cioè i loro capitalisti, stanno tentando di rompere la propria dipendenza e cioè di bloccare l’esproprio di plusvalore. Il loro scopo è l’introduzione di tecnologie alla pari di quelle dei paesi dominanti, di differenziare la propria economia e di accumulare capitale.

Le singole nazioni che tentano di rompere la loro dipendenza possono non avere le necessarie dimensioni. Esse quindi devono raggruppare attorno a se altre nazioni in un rapporto di dominio e cioè devono formare blocchi imperialisti articolati al loro interno che si contrappongano ad altri blocchi imperialisti. All’interno di un blocco imperialista vi è un paese dominante e altri paesi dominati in una gerarchia di efficienza. Il paese dominante è quello il cui capitale ha un livello tecnologico superiore a quello degli altri paesi. Esso cresce alle spese dei paesi dominati all’interno del blocco attraverso l’espropriazione del loro plusvalore che a sua volta è il risultato di un più alto livello di sviluppo tecnologico. Poi, questo blocco nel suo insieme, così come i paesi che lo compongono, compete con altri bocchi imperialisti, con le nazioni che li compongono e con paesi al di fuori di tali blocchi. Ciò non esclude che i blocchi imperialisti possano cooperare quando sia loro interesse fare ciò.

Quindi oggigiorno vi sono tre tipi di rapporti imperialisti: (a) tra paesi colonizzatori e paesi colonizzati (b) tra paesi dominanti e paesi dominati ma incapaci di sfidare i paesi dominanti e (c) tra paesi dominanti e i paesi che sfidano il loro dominio anche se non hanno ancora raggiunto un posto tra i paesi dominanti. I paesi dominanti non esitano a ricorrere ad una varietà di strategie, comprese le guerre, sia per l’appropriazione di materie prime sia  per evitare che altri paesi escano dalla loro situazione di dipendenza. Ma questo è un argomento che non posso trattare qui.

Ovviamente, quando si parla di paesi non ci si riferisce entità giuridiche. In prima istanza ci si riferisce alle classi sociali che li formano. Quando si parla di paesi dominanti, ci si riferisce ai grandi capitali in quei paesi.

La UE si colloca in questo contesto. Al suo interno vi è un paese, la Germania e quindi il grande capitale tedesco, che è dominante relativamente agli altri paesi all’interno del blocco e che quindi succhia plusvalore dai capitali meno efficienti i quali a loro volta lo hanno succhiato dai lavoratori. Ma la UE sfida anche altri blocchi, per esempio gli USA, attraverso misure comuni al suo interno come l’Euro. Questo è un punto chiave su cui ritornerò.

II. Fin qui l’analisi è stata poco di più di un succinto riassunto di elementi già noti. Ora, però, vorrei introdurre una linea di ricerca che penso che sia poco nota in Italia. È portata avanti da un numero sempre più folto di ricercatori. Come ben saputo, l’indicatore dello stato di salute di un’economia capitalista non sono i profitti ma il tasso di profitto, i profitti sugli investimenti. Vediamo cosa determina l’andamento del tasso di profitto. L’economia capitalista si basa essenzialmente sulla competizione tecnologica, sull’introduzione di sempre più nuove ed efficienti tecnologie. Come ho già accennato, esse da una parte rendono il lavoro umano più produttivo, cioè i lavoratori creano sempre di più prodotti con una data dotazione di mezzi di produzione. Dall’altra i nuovi mezzi di produzione rimpiazzano forza lavoro. Sempre meno lavoratori producono un numero sempre maggiore di prodotti. Questo è Marx. Consideriamo se i fatti empirici gli danno ragione.

Grafico 1. Produttività e occupazione, settori produttivi, Stati Uniti

Fonte: mie elaborazioni

Nel grafico 1, la linea blue è il prodotto per lavoratore. Cresce da circa 500 milioni di dollari (deflazionati) nel 1947 a circa 4300 milioni nel 2010. La linea rossa è il numero di lavoratori per unità di mezzi di produzione. Scende da circa 76 lavoratori per milione di dollari (deflazionati) a 6 lavoratori nello stesso periodo. Il grafico 1 mostra che un output crescente è prodotto da un numero sempre minore di lavoratori. In un’altra società, ciò sarebbe una benedizione. Diventa una maledizione nell’ambito dei rapporti di produzione capitalisti.

Come ho menzionato prima, dato che solo il lavoro genera valore e plusvalore, se il lavoro cade, cade il plusvalore generato per unità di capitale investito, cioè il numeratore del tasso di profitto. Allo stesso tempo crescono i mezzi di produzione per unità di capitale investito, cioè il denominatore del tasso di profitto. Il tasso di profitto scende. Il grafico 2 dimostra che lo stato di salute degli USA è in continuo deterioramento fin dalla fine della seconda guerra mondiale. Questo grafico evidenzia la relazione tra la caduta tendenziale del tasso di profitto e il numero di lavoratori (sui mezzi di produzione). Essi vanno di pari passo

Grafico 2. Tasso di profitto medio e rapporto tra lavoro e mezzi di produzione, settori produttivi degli Stati Uniti

Fonte: mie elaborazioni

Un numero sempre crescente di studi sta dimostrando che il movimento dell’economia statunitense è solo un esempio del movimento del capitalismo mondiale, anche se l’economia statunitense ha le sue caratteristiche derivategli dalla sua posizione egemone

Grafico 3. Tasso di profitto medio dei paesi del centro 1869-2010

Fonte: Michael Roberts, The World in Crisis, curato da G. Carchedi e Michael Roberts, Zero Books, di prossima pubbblicazione.

Il tasso di profitto mondiale crolla nel 1929, si riprende con la seconda guerra mondiale, e cioè con la trasformazione dell’economia civile in un’economia di guerra, ma riprende a scendere subito dopo la fine della guerra. 

I grafici 2 e 3 mostrano la caduta secolare del tasso di profitto. Questo dato è di estrema importanza per quattro motivi.

Primo, la caduta di lungo periodo del tasso di profitto è il sostrato da cui emergono regolarmente le crisi sia economiche che finanziarie e quindi disoccupazione, povertà, guerre, ecc. Questa caduta è anche il fattore che ci permette di prevedere che le crisi continueranno fino a quando sussisterà un’economia basata sulla produzione per e di plusvalore, cioè per e di profitti.

Secondo, la caduta secolare del tasso di profitto è essenziale anche per capire dove va l’imperialismo perché essa colloca la lotta inter-imperialista in una sempre maggiore debolezza del sistema mondiale, cioè la crescente difficoltà di estorcere plusvalore relativamente al capitale investito.

Terzo, questo significa che i margini di manovra per le politiche redistributive a favore del lavoro si restringono sempre di più. La teoria della caduta del tasso di profitto esclude tale possibilità, più he mai nella situazione attuale. È per questo che è attaccata non solo dall’economia convenzionale ma anche dai Keynesiani e anche da Keynesiani in abiti Marxisti. La lotta per migliori condizioni di vita e di lavoro è sacrosanta, ma non nell’ottica riformatrice, Keynesiana. Piuttosto, si deve combattere per le riforme perché esse contribuiscono ulteriormente all’indebolimento del capitale e rendono più facile il suo superamento e non perché le riforme dovrebbero farci uscire dalla crisi.

Quarto, nel quadro della caduta secolare del tasso mondiale di profitto, la lotta imperialista non può che diventare più acuta e le crisi, essendo la manifestazione della crescente debolezza del sistema, non possono che diventare sempre più gravi e distruttive. Le potenze imperialiste sono come lupi affamati che si contendono la preda. La preda non sono solo le colonie ma anche il plusvalore prodotto nel mondo intero. Ma la preda diventa ogni volta più piccola e la lotta più feroce.

III. Se questo è il quadro generale in cui si muove la lotta imperialista, perlomeno nel mondo occidentale, le manifestazioni dei rapporti di dipendenza sia tra blocchi imperialisti che al loro interno dipendono dalle situazioni specifiche, storicamente determinate. Un strumento relativamente recente di tale lotta è l’euro.

Fin dall’inizio, lo scopo del progetto europeo è stato quello di creare un blocco in grado di controbilanciare il potere economico degli USA. Una delle condizioni era la creazione di una moneta unica che diventasse la rivale del dollaro. Questa non era solamente o anche principalmente una questione politica. Era soprattutto una questione economica. Quello che era in gioco era, ed è, il signoraggio. Vediamo che cos’è.

Dal 1971, una grossa quantità di dollari dei dollari che gli USA hanno pagato per le loro importazioni non viene usata dagli altri paesi per importare beni statunitensi. Questi dollari sono usati da altre nazioni come valuta di riserva internazionale o come mezzo di pagamento sui mercati internazionali. In tal modo gli USA importano beni e danno in cambio denaro che non viene usato da altri paesi per importare beni statunitensi. Questi dollari, finche non vengono usati per importare beni statunitensi, rimangono carta senza valore intrinseco. Per i detentori di dollari, questo è valore potenziale che non si realizza. Questa situazione dura da 45 anni. In breve, gli USA si appropriano del valore importato e prodotto da altre nazioni per un ammontare di circa il 6% del loro PIL.

Grafico 4. Bilancia commerciale degli USA come percentuale del PIL

Fonte: http://www.data360.org/dsg.aspx?Data_Set_Group_Id=270

Questo è il signoraggio, l’appropriazione di valore prodotto da altre nazioni da parte della nazione la cui moneta è il mezzo di pagamento e di riserva internazionale e cioè la moneta della nazione economicamente dominante, gli USA. Ma il signoraggio è minacciato nella misura in cui gli USA perdono la loro posizione economicamente dominante. L’Euro nasce come il rivale del dollaro per contrastarne il signoraggio. Per capire l’Euro, consideriamo il suo precursore, l’ECU.

L’ECU era compost da 9 monete. Il valore dell’ECU era stabilito relativamente al dollaro. Il valore dell’ECU era determinato in conformità a due fattori. Primo, ogni moneta contribuiva per una determinata percentuale alla composizione dell’ECU. Secondo, ogni moneta contribuiva al valore dell’ECU secondo il suo tasso di cambio col dollaro al momento della costituzione dell’ECU, il 1 dicembre 1978. La sommatoria di tutte le monete dava il tasso di cambio di 1 dollaro = 1.3 ECU. Ora, il peso maggiore fu dato al marco tedesco, la moneta forte perché, essendo l’espressione di una economia forte che era in grado di esportare sulla base della propria alta produttività, non era soggetta a svalutazione. Alla Germania fu dato un peso del quasi 33% del valore dell’ECU.  Ad altre valute fu dato un peso molto minore. All’Italia, per esempio fu dato un peso 9,8%.

Dopo la sua costituzione, il valore (ma non la composizione) dell’ECU cambiava nei confronti del dollaro secondo le variazioni del tasso di cambio delle singole monete. Se una moneta si rivalutava nei confronti del dollaro, il valore dell’ECU nei confronti del dollaro aumentava. Vice versa se una moneta si svalutava. Ma se una moneta con una grossa percentuale nel valore dell’ECU si rivalutava e un’altra moneta con un bassa percentuale si svalutava, l’ECU si rivalutava. Siccome il marco tedesco si rivalutava continuamente, anche l’ECU si rivaluta. Si vede quindi come l’ECU fosse concepito già fin dall’inizio come una moneta forte anche se virtuale e

riflettesse gli interessi del capital tedesco più di quelli di altri capitali europei più deboli. L’ECU era l’espressione quantitativa del dominio tedesco nel progetto europeo.

Quando l’ECU fu trasformato nell’Euro sulla base di 1 ECU = 1Euro, l’Euro nacque come moneta forte relativamente al dollaro, come un rivale del dollaro per la lotta per il signoraggio. L’Euro fu fin dall’inizio l’espressione del settore dominante del capitale tedesco il cui progetto era la creazione attorno a sé di un polo imperialista alternativo a quello statunitense.  

Dopo la sua nascita, l’Euro doveva mantenere la sua posizione di forza. La condizione era non solo la posizione di forza del capitale tedesco. Tutta la zona euro avrebbe dovuto diventare competitiva in campo internazionale. Tuttavia, la zona euro fu estesa a paesi il cui livello di produttività era ben lontano da quello necessario per mantenere un Euro forte.  L’intenzione tedesca era duplice:

(1) impedire che le economie più deboli competessero svalutando la propria moneta e

(2) allargare la zona in cui le transazioni internazionali fossero saldate in euro (invece che in dollari) in modo da incrementare la domanda di euro e quindi favorire la sua rivalutazione.

La crisi attuale segna una pausa nella lotta tra il dollaro e l’Euro. Un dollaro debole da una parte indebolisce il ruolo del dollaro come moneta internazionale e quindi minaccia il suo signoraggio ma dall’altra favorisce le sue esportazioni. In questa congiuntura, il capitale Statunitense sceglie la seconda opzione.  Ciò non significa che non vi sia più rivalità tra le due monete. Ma la lotta per il signoraggio è nella fase attuale meno impellente di altri pericoli più immediati.

Il principale effetto dell’introduzione dell’Euro per le economie a basso livello di produttività (per esempio, l’Italia) è la loro impossibilità di ricorrere alla svalutazione per incrementare le loro esportazioni. Molti danno la colpa della crisi economica Italiana a questa impossibilità. Il che è sbagliato. Inoltre, si suppone che il ricorso alla svalutazione e quindi l’incremento delle esportazioni farebbe ripartire o comunque migliorerebbe, l’economia Italiana. Anche questo è sbagliato.

Vediamo prima di tutto se e in che misura l’introduzione dell’Euro ha influito sulla bilancia commerciale tra la Germania e l’Italia.

Grafico 5. Bilancia commerciale Germania-Italia, milioni di euro.

Fonte: Eurostat (2010), External and intra-EU trade - statistical yearbook, Data 1958 – 2009, European Commission, p.191 e 143. http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_OFFPUB/KS-GI-10-002/EN/KS-GI-10-002-EN.PDF

Dal 2000 al 2009, le bilance commerciali della Germania e dell’Italia si sono mosse in direzioni opposte. Tuttavia il deterioramento della bilancia commerciale Italiana non può essere attribuito solo o principalmente all’impossibilità di svalutare la Lira. Vediamo perché.

Consideriamo prima il tasso di crescita del PIL della Germania e dell’Italia

Grafico 6. Tasso di crescita del PIL, Germania e Italia

Fonte: http://stats.oecd.org/Index.aspx?DatasetCode=PDYGTH

Entrambi i tassi crescono (eccezione fatta per la crisi del 2008-09), ma quello tedesco cresce di più di quello Italiano.

Consideriamo poi la produttività del lavoro. Nel grafico che segue L significa ore di lavoro e PIL/L è una misura della produttività del lavoro.

Grafico 7. Tasso di crescita della produttività del lavoro (PIL/L) in Italia e Germania

Source: http://stats.oecd.org/Index.aspx?DatasetCode=PDYGTH

e consideriamo infine le ore di lavoro

Grafico 8. Ore di lavoro in Italia e Germania, 2005=100

Source: http://stats.oecd.org/Index.aspx?DatasetCode=PDYGTH

In Germania la produttività cresce mentre le ore di lavoro calano. Allora, la crescita del PIL è dovuta alla maggiore efficienza, cosa che per altro non esclude un maggior grado di sfruttamento. Ma dato che il tasso di sfruttamento è aumentato anche in altri paesi, sarebbe erroneo attribuire la crescita del PIL a questo fattore.

In Italia la produttività cala mentre le ore di lavoro crescono. Quindi, l’incremento del PIL è dovuto non ad una maggiore produttività ma ad un maggiore grado di sfruttamento. Il valore aggiunto per lavoratore è 67,500 euro in Germania e 51,000 in Italia. Questo dovrebbe sfatare il pernicioso mito dei pigri lavoratori italiani.

È quindi sbagliato attribuire la bilancia commerciale negativa dell’Italia all’Euro. La causa della inferiore prestazione dell’Italia è la sua base tecnologica arretrata relativamente a quella tedesca. L’impossibilità di ricorrere alla svalutazione competitiva si è innestata su questa debolezza tecnologica.  La questione se rimanere nell’euro o no deve partire da questo dato. La risposta dipende dalla cornice politica in cui tale decisione viene presa. E cioè se per una strategia rivoluzionaria sia meglio rimanere nell’area dell’Euro o uscirne.

Se la colpa della crisi Italiana non è dell’Euro (l’Euro la amplifica piuttosto che causarla),  il ritorno alla lira e alla svalutazione competitiva non rilancerebbe l’economia. In essenza, se un paese svaluta la propria moneta, i suoi capitalisti ricevono meno moneta estera per le proprie esportazioni e pagano di più della loro moneta per le loro importazioni. Siccome con meno moneta estera essi possono comprare meno beni esteri e siccome i capitalisti esteri, avendo ricevuto più moneta, possono comprare più beni del paese che svaluta, la svalutazione significa che meno beni esteri vengono scambiati per più beni nazionali. Vi è quindi una perdita di valori d’uso e quindi del valore in essi incorporato.  I beni così persi sono detrazioni dal consumo o dagli investimenti della nazione che ricorre alla svalutazione competitiva. All’interno del paese che ricorre alla svalutazione competitiva, gli esportatori realizzano più profitti ma la nazione nel suo insieme perde valore.

Il capitalista esportatore può esportare di più e quindi ha maggiori introiti. Ma l’output disponibile sul mercato nazionale è sceso perché una parte è stata appropriata dalle altre nazioni importatrici. Questa è l’origine di un processo inflazionistico. E quelli che ne sono le prime vittime sono i lavoratori.

L’argomento keynesiano si basa sull’ipotesi che la maggiore produzione indotta dalla maggiore esportazione causa maggiori investimenti e occupazione. Da qui il processo di espansione si espanderebbe al resto dell’economia (questo è in essenza il moltiplicatore Keynesiano). Ma questa concezione soffre di un vizio di fondo: l’economia cresce solo se il tasso di profitto cresce. Un’economia che produce sempre di più ad un tasso medio di profitto sempre minore è sulla strada dell’avaria. Se negli investimenti iniziali più gli investimenti indotti dai primi investimenti vengono usati percentualmente meno lavoro che mezzi di produzione, i profitti e l’occupazione aumentano ma il tasso di profitto generale diminuisce. Questo ha conseguenze negative per i capitalisti meno efficienti che in questo modo sono spinti  verso il fallimento, con conseguente perdita di produzione e di occupazione. È questa è l’ipotesi più probabile perché i capitalisti più efficienti (quelli che impiegano percentualmente meno lavoro) sono quelli cui sono commissionati gli investimenti perché sono in grado di offrire prodotti più a buon mercato. La crescente diminuzione di lavoro impiegato relativamente ai mezzi di produzione favorisce la formazione della crisi piuttosto che evitarla. Questo è il motivo per cui dopo un primo impulso dato dalla politica Keynesiana, l’economia si mette di nuovo sulla china discendente. Lo stato può finanziare e commissionare opere pubbliche ai privati attraverso il debito di stato. Ma il problema risorge quando il debito deve essere ripagato. Questa è la critica Marxista del moltiplicatore Keynesiano.

Come si colloca il proletariato in questo quadro? Il vero problema dei paesi che ricorrono alla svalutazione competitiva è l’inefficienza del loro apparato produttivo relativamente ai loro competitori internazionali. Questo problema è il problema del capitale. Il lavoro non deve farsene carico. Non deve credere che la modernizzazione dell’apparato produttivo sarebbe conveniente anche per il lavoro perché – come si sostiene- il lavoro potrebbe ricevere una fetta del plusvalore internazionale appropriato dal capitale.

Primo, un’accresciuta produttività significa una maggiore disoccupazione tecnologica. Secondo, i lavoratori che non hanno perso il loro lavoro, anche se ricevessero una maggiore fetta della torta, diventerebbero attori attivi nella competizione capitalista internazionale. Sarebbero risucchiati in una logica riformista di collaborazione di classe.  Parteciperebbero nello scaricare gli effetti delle innovazioni tecnologiche sui paesi più deboli, con tutte le conseguenze negative per la forza lavoro in quei paesi.

Il problema del lavoro è differente. Deve evitare di pagare i costi della crisi facendoli pagare al capitale al fine non solo di rafforzare la propria posizione ma anche di indebolire quella del capitale. Il proletariato deve essere cosciente che in questo sistema le crisi sono inevitabili e deve quindi costruire le condizioni oggettive e la coscienza di classe necessarie per una transizione fuori dal capitalismo. La lotta del proletariato, dei proletariati, non può essere accanto ai capitalismi nazionali. Deve essere accanto  agli altri proletariati e quindi non può che essere internazionalista. 

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