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Con Londra la Ue innesta la marcia indietro?

 

di Dante Barontini

Per evitare la Brexit l'Unione Europea accetta di correre il rischio della paralisi, oltre a mettere nero su bianco che i diritti del cittadino europeo diventano aleatori, a seconda del paese in cui finisce per lavorare.

Sembra proprio questo il significato istituzionale della bozza d'accordo pubblicata stamattina a Bruxelles e indirizzata a “rivedere” i rapporti tra Ue e Gran Bretagna. I conservatori inglesi, al governo con David Cameron, avevano infatti posto ben quattro condizioni per restare formalmente dentro la Ue a 28, e bisogna dire che sono state quasi integralmente accolte.

Londra chiedeva di poter sospendere per quattro anni il diritto al welfare per tutti i cittadini Ue residenti per lavoro o studio sul suolo britannico. Un colpo durissimo alla libertà di movimento tra “comunitari”, perché senza copertura sanitaria diventa molto difficile vivere oltremanica, anche per quanti hanno un buon lavoro, visti i costi proibitivi delle strutture private. Una concessione che sembra addirittura priva di giustificazioni economiche, visto che la Gran Bretagna si dice ufficialmente fuori dalla recessione da almeno un paio di anni (ma con tassi di crescita comunque micragnosi). Naturalmente una “deroga” del genere può a questo punto esser chiesta da qualsiasi altro paese, e a maggior ragione da quelli con maggiori problemi di bilancio, suonando così la campana a martello per chi pensa di poter lavorare in un altro paese.

Come secondo punto – su cui la vittoria appare altrettanto piena – se 16 paesi chiederanno di rivedere una direttiva comunitaria, persino di quelle valide solo nell'ambito della zona euro (solo 19 paesi sui 28 della Ue), la Commissione dovrà accogliere la richiesta e aprire una fase di ri-contrattazione della misura rigettata. Un meccanismo che rischia di essere fatale per la struttura decisionale di Bruxelles, anche se sia la percentuale di paesi (55%) che i tempi concessi ai parlamenti nazionali per pronunciarsi (12 settimane) appaiono soppesati apposta per impedire che l'eventualità possa verificarsi. Non è impossibile infatti che le decisioni Ue più controverse e dannose per i paesi più deboli (che sono per l'appunto maggioranza) possano incentivare i parlamenti nazionali a cambiare rapidamente il proprio ordine del giorno. Basta pensare a un'eventuale direttiva sulla redistribuzione percentuale dei profughi tra i 28 paesi per immaginare una rapidissima sollevazione, a partire dall'est europeo, in grado di invalidare la decisione.

Altrettanto devastanti, anche se apparentemente più tecniche, le ultime due condizioni: a) possibilità per i singoli paesi (non è pensabile concedere alla sola Gran Bretagna questo privilegio) di rifiutare la clausola dei trattati che impegna a realizzare una “Unione sempre più stretta” e b) il riconoscimento formale della natura “multivalutaria” dell'Unione. Con la prima, infatti, viene meno lo stimolo e l'impegno a realizzare forme di integrazione comunitaria di più ampia portata (e maggiormente vincolanti, dunque). Con l'ultima, infine, si pongono le basi legali per l'uscita di alcuni paesi dalla moneta unica, mettendo ufficialmente fine al percorso che doveva portare tutto il continente a utilizzare la stessa divisa.

La bozza d'accordo contiene – renzianamente – soltanto i titoli, mentre i dettagli che dovranno portare a un vero e proprio nuovo trattato sono ancora tutti da negoziare. Ma ce n'è abbastanza per eccitare progetti di svincolamento più o meno radicali dalla sempre più vuota e burocratizzata Unione Europea.

Con questo testo sotto il braccio Cameron può forse convocare il referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nella Ue con qualche possibilità in più di ottenere un “sì”. Ma non è affatto detto che questo “compromesso” riesca convincente per i suoi concittadini (ricordiamo che sono forti sia le resistenza di destra, come l''Ukip di Farage, che di sinistra - come i “socialisti scozzesi”, indipendentisti sia verso Londra che nei confronti di Bruxelles), storicamente freddini nei confronti dei richiami europeisti e più abituati a pensare Washington come partner “naturale”.

Il percorso sarà comunque molto rapido. Entro il 19 febbraio dovrebbe concludersi il calendario di vertici (prima gli sherpa della diplomazia, poi i capi di stato e di governo). Il giorno dopo potremmo avere davanti un'Unione Europea ufficialmente ricompattata, ma con i batteri della necrosi iscritti nel suo dna.

Vero è che il “metodo” di costruzione degli obblighi comunitari è sempre stato quello di sfruttare i momenti critici per imporre vincoli più forti. Ma in questo caso sembra che il risultato partorito sia di segno opposto. E del resto la Gran Bretagna non è la Grecia...

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