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Relazione introduttiva di Massimiliano Piccolo al Convegno Formazione, Ricerca e Controriforme

Convegno Formazione, Ricerca e Controriforme - 30 aprile 2016

I processi di ristrutturazione capitalista in atto a livello internazionale da qualche decennio e la fase costituente dell’Unione Europea in polo imperialista hanno avviato – forse in modo definitivo – una fase nuova nella storia. Dopo la sconfitta dell’Unione Sovietica, l’Europa si è, infatti, ritagliata un ruolo diverso da quello che aveva svolto finché l’imperialismo nord americano poteva esercitare nei suoi confronti una politica volta a una subordinazione quasi meccanica della sua funzione nello scacchiere geopolitico internazionale.

La politica del contenimento aveva nei fatti prodotto un’Europa asservita ma anche partecipe di tale condizione. La prima idea di unità europea (il Mec e la Cee dopo) prende corpo, infatti, in contrapposizione al blocco socialista e, quindi, la scelta di campo all’interno del conflitto capitale-lavoro è da subito netta. Identità ideologica, ragioni economiche e comunanza strategica nell’atlantismo sono le coordinate comuni dei paesi che vi aderirono. Nasce, così, un’Europa di organismi sovranazionali e dei governi che procede verso un’unificazione più stringente con l’elezione popolare del parlamento di Strasburgo, con l’integrazione monetaria e del mercato del lavoro, con l’unificazione delle due Germanie e con la conseguente annessione di pezzi dell’ex blocco socialista.

Sul processo in atto oggi che tende a costituire l’Unione Europea in un polo imperialista che contrasta ma anche collabora con il tradizionale imperialismo americano, abbiamo già scritto parecchio; si tratta, adesso, di puntare l’attenzione su quell’insieme di politiche che hanno nei processi di formazione dei giovani un punto cruciale d’insistenza. Giovani intesi come forza lavoro e come portatori di complessive ‘visioni del mondo’ assoggettabili a questo ruolo nuovo dell’Unione Europea e funzionale alla contemporanea divisione internazionale del lavoro. Da questo punto di vista, infatti, la mancanza di specifici progetti nazionali sulla formazione è la spia dell’adeguamento a un paradigma unico europeo sulla formazione in subalternità perché tarato sulle necessità dei paesi dominanti e della costituenda borghesia europea.

Una volta chiarito che mettere al centro il tema della formazione non significa occuparsi della coesione o dell’omogeneizzazione politico-ideologica interna ma mettere sotto lente d’ingrandimento i processi di formazione in atto (dei suoi meccanismi e dei suoi luoghi di distribuzione) voluti dalla costituente classe dirigente europea (il passaggio da classe dominante a dirigente implica rigorosi processi di formazione), è necessario rafforzare l’analisi in modo da fare chiarezza su cosa stia avvenendo (ormai da circa venticinque anni) sul terreno della scuola, dell’università, della ricerca e della funzione della scienza. Si tratta di una funzione di coagulo e, quindi, di aggregazione possibile e rilancio dell’iniziativa politica.

Rilancio dell’iniziativa politica che appare imprescindibile in conseguenza del mutato contesto politico nazionale che, negli ultimi anni, ha visto scomparire a livello parlamentare qualunque forza organizzata che s’ispirasse apertamente (almeno nel nome) a un’alternativa di sistema e non solo a una relativa quanto ambigua alternanza di governo entro i paletti della compatibilità. Per questo motivo nasce la scelta della RdC di intervenire oltre i suoi classici terreni politici, nazionali e internazionali, in quanto è sempre più necessario elaborare ed avere una idea organica delle complesse dinamiche negli sviluppi dell’attuale società.

I temi della formazione e la riflessione critica su di essi sono stati un patrimonio riconosciuto della storia dei comunisti in Italia e non solo. Riprendere questo filo interrotto non significa, ovviamente, riproporre analisi o soluzioni datate perché il mondo è inevitabilmente cambiato nei suoi assi materiali ma anche nella ridotta capacità egemonica del movimento operaio e comunista, quanto piuttosto riprendere l’attitudine ad esercitare sul piano della formazione un’analisi teorica rivoluzionaria.

La sostanziale liquefazione delle organizzazioni di sinistra più o meno radicali che non hanno retto alla mancanza del riferimento istituzionale, ha quindi ulteriormente rafforzato – dal punto di vista dell’oggettività, cioè per come stanno effettivamente le cose indipendentemente dai desiderata dei diversi soggetti in campo - la funzione di orientamento generale che la RdC può e deve esercitare.

Coerentemente con quanto scritto e ribadito pubblicamente in diverse circostanze in questi ultimi anni, la RdC considera che la fuoriuscita dalla crisi sistemica del modo di produzione capitalista corrisponda per quanto riguarda l’Europa alla rottura dell’Unione Europea, quindi una risposta politica in grado di ribaltare il tavolo e rimettere in discussione i criteri che hanno determinato la situazione attuale. Questo in conseguenza della sua irriformabilità nel senso di una sostanziale natura anti-popolare (come i fatti mostrano) che rende velleitario e astorico ogni tentativo di volgerla verso politiche più democratiche. Il vizio di nascita dell’UE non può essere corretto ma combattuto.

Evenienza – questa- che avrebbe un ruolo dirompente per tutte le lotte e non solo per i paesi direttamente interessati dalla sua rottura.

Quindi dopo la scomparsa del campo socialista in Europa, quest’ultima si è potuta ritagliare un diverso campo d’azione politica che pur mancando ancora dell’imprescindibile unità statale le consente di muoversi – come dicevamo prima - in contrasto e in rinforzo dialettico col tradizionale imperialismo statunitense determinando nel proprio continente e nelle aree limitrofe un centro e una periferia come nella più classica delle pratiche concrete dell’imperialismo. Questi processi – com’è risaputo – implicano considerevoli modificazioni: forza-lavoro, scienza ed educazione di un’adeguata classe dirigente sono il corollario necessario della fase attuale. Tanto più se questo tema è messo in relazione con quello dell’immigrazione e quello della guerra, come l’attualità più stringente conferma.

Le controriforme in atto a livello europeo sono, allora, strettamente in relazione con le direttive europee sulla formazione e dobbiamo sottolineare come ogni riflessione sulla formazione, dalla scuola all’università, che ometta questo passaggio è sempre un ragionare con un ingombrante convitato di pietra. Fino a qualche decennio fa, ad esempio, la scuola italiana era il luogo dell’immobilismo; sembrava impenetrabile ai mutamenti che interessavano la società. Mutamenti che determinavano cambiamenti nella pratica didattica senza avere però alle spalle (a livello istituzionale) nessun serio approfondimento epistemologico sulla natura e i fini dell’insegnamento ma che modificavano radicalmente la relazione tra docenti e alunni.

Al Ministero di Viale Trastevere, il tempo sembrava essersi fermato ben prima del ’68: nei programmi come nella più generale idea di scuola. Eppure il tema della formazione non è mai stato secondario per nessuna classe dirigente. Una sommaria storia sociale dell’educazione ci ricorda come in Italia (per rimanere ancorati al nostro Paese) sin dalla Legge Casati del 1859, il sistema scolastico appariva rigidamente istituzionalizzato ed anche allora impermeabile alle spinte innovative che in ambito liberale si erano pur sempre avute negli anni precedenti.

Qui bisogna fare un primo spostamento nell’angolatura verso cui guardare al problema, un cambiamento che può segnare la ‘differenza’: guardare, ad esempio, a quanto avviene nel mondo della Scuola Superiore o dell’Università, non dal punto di vista rivendicativo e vertenziale del corpo docente o degli studenti, quanto – piuttosto – dal punto di vista del Paese. Passare, cioè, all’analisi prima del tutto e poi della parte. Quali sono cioè (e perché) gli assi culturali attorno ai quali è stato deciso di far ruotare la formazione?

E, quindi, quale funzione è stata assegnata all’Italia nel contesto dell’Unione Europea in conseguenza del tipo di classe dirigente che si è deciso di formare e sulla quale si sta investendo? Se – cioè - ormai da qualche tempo l’Ue sta svolgendo una crescente gerarchizzazione e uniformazione dei principali strumenti capaci di incidere sulla realtà sociale ed economica, allora anche il tema della formazione va inserito in questo quadro più generale. Ecco perché, allora, per noi parlare di Scuola o formazione non può significare l’atmosfera culturale dei convivi ma anche parlare della lettera del 5 agosto 2011 firmata da Jean Claude Trichet e Mario Draghi.

Ancora: la cosiddetta ‘fuga dei cervelli’ (verso la Germania stessa o altri paesi Ue) e la questione giovanile a essa collegata ne è parte integrante. Stesso discorso, su scala e ordine di grandezze diverse, può essere fatto per la nuova questione meridionale che da qualche anno investe il Mezzogiorno non più come emigrazione operaia ma come forza lavoro intellettuale e precarizzata (anche in quest’ottica è possibile leggere la ‘deportazione’ dei docenti precari del sud). A tal proposito è opportuno evidenziare come alcune inchieste, condotte da soggetti diversi, abbiano rilevato come il livello di emigrazione dall’Italia è quasi pari a quello dell’immigrazione e come i giovani coinvolti non siano più esclusivamente meridionali ma anche provenienti dalle aree tradizionalmente più produttive del paese. La formazione di una borghesia europea e i parametri imposti alle modificazioni sui processi formativi sono sì uniformi su base continentale ma la loro ‘taratura’ rende i risvolti occupazionali asimmetrici rispetto alle diverse aeree con l’ovvia conseguenza d’arricchire alcune aree a dispetto di altre. Non è casuale, infatti, la recente vicenda degli ingegneri siriani ‘accolti’ in Germania o nella Ue di contro gli invocati respingimenti continui nei confronti di una mano d’opera poco qualificata proveniente in massa dal Mediterraneo e largamente eccedente rispetto alle esigenze dei meccanismi di produzione europea. Ancora una volta il possesso delle competenze scientifiche e tecniche si mostra la condicio sine qua non dello sviluppo.

La battaglia per la scienza e la tecnologia è spesso la vera posta in gioco. Consapevolezza questa troppo spesso assente in chi dovrebbe avere l’interesse materiale verso la trasformazione sociale in senso democratico e progressista, ma ben presente nei piani di lavoro delle classi dirigenti.

Per quanto, infatti, in Italia il titolo di studi non garantisca più quella mobilità sociale che aveva sostenuto sino a qualche decennio fa, esso continua a essere – statistiche alla mano – uno strumento indispensabile sia come paracadute nella crisi consustanziale al modo di produzione capitalista sia come messa a valore delle condizioni di sviluppo delle forze produttive: questo vuol dire che abbandonata la mobilità sociale che era figlia di un contesto storico-politico molto diverso, l’istruzione torna a essere il rafforzamento delle posizioni sociali già dominanti e, nella divisione internazionale del lavoro, le gerarchie nuove o consolidate dipendono in buona sostanza dal corretto uso delle risorse intellettuali.

Se fino a qualche anno fa, da parte dei pezzi più consapevoli del movimento democratico e progressista che emergeva anche dal mondo della Scuola italiana, s’invocava ancora un biennio comune capace di scardinare la consueta selezione naturale che già a quattordici anni registra le differenze di partenze e l’innalzamento dell’obbligo scolastico ne era il corollario, oggi si va invece verso l’abolizione del valore legale del titolo di studio col conseguente fiorire di tutta una serie di agenzie di formazione private (legate dunque alle esigenze dell’impresa) che non hanno per nulla a cuore l’istruzione pubblica come momento di crescita collettiva e di emancipazione sociale e la fine di fatto della contrattazione collettiva per i docenti. Descolarizziamo, allora, ma a favore di un diverso canale della formazione che non passerà più unicamente da quello pubblico, democratico e laico ma sarà appunto più aderente alla nuova atomizzazione della società: la scuola, cui siamo abituati, rimane forse l’ultimo ostacolo alla completa disgregazione del tessuto sociale e culturale alla base della Costituzione antifascista. Il revisionismo compiuto passa da lì. E le ultime tracce di quell’anomalia italiana nel contesto del mondo atlantico, rischiano di essere definitivamente cancellate. In un momento storico e politico come quello attuale, allora, il richiamo ad alcuni passaggi costituzionali (di là da ogni feticismo delle carte), sebbene non sufficiente, serve non solo come difesa tattica di conquiste fondamentali ma anche come educazione al dialogo con forze politiche e soprattutto con movimenti di studenti e di docenti radicati nei luoghi della formazione cui si faceva cenno prima. Così, ricordare che la Scuola non eroga un servizio, in quanto è un’istituzione dello Stato repubblicano che concorre alla ricerca dell’uguaglianza (art. 3), consente di entrare nel merito dei processi di privatizzazione senza rimanere nella vaghezza del punto di vista meramente ideologico. Negli ultimi vent’anni non si fa altro che annunciare e compiere cambiamenti che dietro la retorica delle riforme necessarie hanno, di fatto, scardinato l’impianto su cui essa si sorreggeva, operando delle vere e proprie controriforme. Non si tratta, è bene rimarcare, di assumere posizioni di mero conservatorismo, ma sottolineare come il cambiamento di per sé non sia una riforma (l’ultima vera riforma della scuola in Italia è la Scuola Media Unificata nel 1962); il cambiamento non è mai neutro ed esprime un verso e una direzione.

Sostenere il cambiamento quando i rapporti di forza in campo consentono la direzione della trasformazione sociale progressista è un conto ma quando i rapporti di forza reali determinano la direzione opposta, opporsi al cambiamento è solo un conservatorismo relativo in attesa o in vista di un vero cambiamento riformatore o rivoluzionario. L’origine di questi processi, qui solo evocati, affonda le sue radici nella fine degli anni Ottanta col Ministro Ruberti (che era in stretto rapporto con l’allora Rettore di Siena Berlinguer che qualche anno dopo sarà protagonista nella Scuola di una delle manovre più contestate, il cosiddetto ‘concorsaccio’ che porterà al grande sciopero del 17 febbraio del 2000) e si lega con i temi dell’istruzione per come sono stati affrontati dal tentativo di globalizzazione capitalistica di qualche anno dopo. Registrato il fatto, cioè lo scardinamento di cui sopra, bisogna però capire le condizioni che lo hanno reso possibile, anzi necessario; su cosa, cioè, si fonda la sua pretesa di legittimità pubblica.

Qui ritorna l’eco della lezione gramsciana sull’egemonia: oggi, in un contesto radicalmente mutato, quale egemonia culturale fa percepire come necessarie e auspicabili misure che invece sono il frutto di un disegno politico e sociale ben preciso?

E questo è uno di quei casi in cui possiamo caratterizzare la nostra azione in modo inequivocabile e, forse, in modo assai fecondo. Per questi motivi riteniamo utile aprire – sul nostro sito internet – una sezione dedicata a questi temi. Uno strumento di consultazione ma anche critico, che intitoleremo ad Alessandro Mazzone, un marxista che ha contribuito in modo significativo ad arricchire il dibattito a livello internazionale e che è stato un nostro compagno sin da subito cui tutta l’organizzazione deve molto.

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