17/10 2014

Opporci ai dissesti ambientali riappropriandoci di un nuovo protagonismo di classe

Sono ancora pieni giornali e telegiornali del disastro avvenuto nei giorni scorsi a Genova, a Parma, nella Maremma toscana, e in altri luoghi della nostra penisola.
Ulteriori eventi di criticità ambientale che producono distruzione e morte.

Un susseguirsi di accadimenti che ormai da alcuni anni si ripeto con sempre maggiore frequenza, mettendo a dura prova la popolazione italiana. Dal grande alluvione che flagellò proprio la Liguria e che causò 19 morti (tra quello delle Lunigiana e Cinque Terre e quello di Genova) sono passati appena tre anni, cinque da quello nel messinese che costò ben 36 vittime. In questo frangente se ne sono susseguiti molti altri come, solo per citare i maggiori, quello di Massa e Carrara nel 2012 (1 morto), quello dell’orvietano e del grossetano sempre nel 2012 (6 morti), quello della Sardegna nel 2013 (18 morti), quello della Provincia di Ancona nel maggio 2014 (3 morti), nel trevigiano ad agosto 2014 (4 morti), nel Gargano a settembre 2014 (2 morti).
Ma i fenomeni alluvionali sono stati moltissimi e quello dell’asseto idrogeologico in Italia è un problema antico e drammatico. Lo testimonia una ricerca del CNR secondo la quale, tra il 1963 e il 2012, sono stati 3.302 i morti per frane, 692 quelli per inondazione (senza considerare quindi quelli degli ultimi 2 anni). Le persone che vivono in zone ad elevato rischio idrogeologico in Italia, secondo il CNR e l’ISPRA, sono circa 5.800.000 e le zone sottoposte a tale rischio sono pari quasi al 10% del territorio nazionale, nel quale sono presenti 6.250 scuole e 550 ospedali. In Italia si consuma suolo ad una velocità pari e 8 metri quadrati al secondo (ogni 5 mesi si cementifica una superficie pari al Comune di Napoli), la superficie urbanizzata negli ultimi 45 anni è passata da 8 mila chilometri quadrati a 22 mila, con un incremento di quasi il 180%, mentre invece la popolazione è cresciuta, sempre nello stesso periodo, del 24%.
In questi giorni scienziati e meteorologi mainstream si affannano nel lanciare messaggi “tranquillizzanti”, utilizzando argomenti strumentali nello spiegarci la differenza tra clima e fenomeni meteorologici. La differenza è pressoché chiara ai più, la studiavamo alle scuole medie e al liceo, ma il nesso che corre tra i due e altrettanto noto. E’ un dato inconfutabile, lo dice la stessa ONU; che la temperatura media della terrà si è incrementata di quasi 1°C negli ultimi 100 anni e di questo lo 0,5°C negli ultimi 25. Questo innalzamento termico si ripercuote anche nella temperatura media degli oceani, immettendo quindi in atmosfera una quantità sempre maggiore di vapore acqueo. Tale fenomeni climatici hanno effetto su quelli meteorologici, causando non tanto stagioni progressivamente più torride ma, piuttosto, fenomeni estremi sempre più frequenti. I cambiamenti climatici globali, che hanno la loro maggior causa nell’attività antropica sopratutto dei Paesi capitalisti (ai primi 4 posti per emissione di CO2 pro-capite annue troviamo: Australia con 18 tonnellate, Stati Uniti con 17 tonnellate, Arabia Saudita con 16 tonnellate, Canada con 15 tonnellate), stanno quindi facendo mutare profondamente gli andamenti stagionali, facendoli virare verso situazioni sempre più estreme. Questo è ancor più vero in paese come l’Italia, con un territorio prettamente montuoso e influenzato da un mare già di per sé “caldo” come il Mediterraneo.
Una situazione globale e locale, ancor più vera nel nostro Paese, se pur decisamente aumentata nella sua “estremità” in questi ultimissimi anni, nota da moltissimo tempo. Come note sono le responsabilità delle cause, altrettanto note sono le responsabilità delle conseguenze degli effetti.
Un utilizzo del territori per fini speculativi, di rendita, di produzione senza limiti al profitto. Le naturali zone alluvionali, delle quali ogni fiume ha bisogno, sono diventati terreni da lottizzare, le pendici delle zone montane e submontane luoghi da disboscare brutalmente, da tagliare con strade insensate, da perforare con chilometriche gallerie, da sventrare con cave estrattive e senza nessun ripristino ambientale, i greti dei fiumi come sede di fondazioni per edifici abitativi o completamente ricoperti da piazze e strade, argini cementificati e imbrigliati nel tentativo di conquistare metri da edificare, valli di bacini idrici usati per impiantare discariche o mega dighe per centrali idroelettriche di centinaia di MW di potenza, solo per fare alcuni esempi.
In Italia si sono rilasciate migliaia di concessioni edilizie per costruire edifici in luoghi notoriamente ad alto dissesto idrogeologico, si sono elaborati Piani Regolatori o Piani di Assetto del Territorio che prevedevano la possibilità di costruire in queste, si sono devastati territori con azioni che non tenevano minimamente conto di ciò che questo poteva provocare.
La gestione del territorio dal punto di vista geologico, naturalistico, paesaggistico è una scienza che non si può continuare ad ignorare. Certo, questo ha bisogno di una visione diversa delle cose, dell'economia e della società. Scelte che chi ha amministrato i nostri territori non ha voluto fare.
Non è una questione di incapacità, è una questione di scelte!
Tutti sanno parlare di sviluppo sostenibile, come del resto ha fatto Matteo Renzi con il suo ennesimo show mediatico all’ultimo vertice mondiale sul clima e che confonde le acque addossando le responsabilità di quanto avvenuto a Genova alla burocrazia. Così come lo sanno fare gli amministratori locali italiani, compreso il Sindaco Marco Doria e il PCI-DS-PD che amministra Genova da decenni, con le loro belle "Agenda 21", ma intanto in Italia si continua a morire per una scellerata politica di gestione del territorio che va avanti ormai da molti, troppi, anni.
Ad esempio in tre anni, dagli ultimi devastanti alluvioni che avevano colpito la Liguria e Genova, nulla si è fatto per mettere in sicurezza il fiume Bisagno, fino ad arrivare alla nuova tragedia ambientale e sociale annunciata di questi giorni.
Piangiamo i nostri morti, certo, spaliamo il fango in quella forte e necessaria azione di solidarietà, come stanno facendo gli uomini e le donne, nativi e migranti, giovani e non, che hanno offerto il loro lavoro volontario ma che sanno benissimo di chi sono le responsabilità di quanto è accaduto, ma cominciamo anche a ripensare alla nostra azione collettiva di democrazia diretta. Per troppo tempo li abbiamo “lasciati fare”, annichilititi dall’antipolitica che in fondo non fa male a nessuno, anzi spesso è funzionale, lasciandoci disgregare, abbandonando quella forza partecipativa di opposizione e controllo. E’ necessario invece appropriarci nuovamente del protagonismo collettivo, sociale e politico, rielaborando e agendo per gli interessi e i bisogni comuni di classe, partendo anche dalla difesa ambientale e sociale dei nostri territori.

* Rete dei Comunisti